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SMF per La Sicilia – Intervista a Cateno Tempio, per il suo approdo a Eretica Edizioni con “Postumi”

12 Novembre 2019 - Articoli di S.M. Fazio, ESCLUSIVA!, Interviste
SMF per La Sicilia – Intervista a Cateno Tempio, per il suo approdo a Eretica Edizioni con “Postumi”

Da La Sicilia del 12 novembre 2019

I “Postumi” che penetrano il lirismo di cose di Sicilia

L’intervista. Nella sua ultima opera in versi, il filosofo Cateno Tempio, esprime l’illusione della permanenza  nel tutto che invece diviene.

di Salvatore Massimo Fazio

L’insegnante di filosofia e storia al liceo di Ramacca, nonostante oscilli tra Catania e Milano, Cateno Tempio, è tornato a brillare negli scaffali libreschi con una silloge, arricchita da due brevi scritti per mano di Enzo Cannizzo e Francesco Caudullo, dal titoloPostumi”, pubblicata per i tipi di Eretica Edizioni. Tempio non è nuovo alla poesia, avendo già pubblicato “Ultimi versi” nel 2015 (TerreSommernse). Inoltre si è dedicato alla saggistica e alla narrativa, per quest’ultima con “L’eroe della montagna. Ascesa e caduta di Marco Pantani” (Villaggio Maori), libro che lo ha imposto definitivamente nel firmamento editoriale, e col recente Vita in frantumi (Rossomalpelo), che si è guadagnato il premio speciale “Vivo in Sicilia” al primo Festival del Libro e della Cultura di Catania “Etnabook 2019”. La Sicilia nei suoi ultimi scritti è molto presente, tanto che a chiedergli se nel neo partorito Postumi sembra consacrala a madre assoluta, ha così replicato:

«La dedica che apre questa raccolta recita: “Ai luoghi, alle persone”. Probabilmente i veri protagonisti dei miei versi sono i luoghi stessi, in quanto cornici ideali, scenografie eidetiche (simili ai modelli platonici in quanto sembrano resistere al tempo) che racchiudono e ospitano le persone. Come nell’ultimo romanzo, Vita in frantumi, anche in questi Postumi vi è uno stretto intreccio tra la Sicilia e Milano, tra il luogo che sento davvero come casa mia, la Sicilia che mi ha cresciuto, e Milano, città d’elezione, che fa da sfondo a gran parte dei versi di questa raccolta».

La raccolta è divisa in due sezioni: nella prima poesie in versi liberi, comunque attenti al ritmo e alle rime; nella seconda vi è un poemetto in sestine di endecasillabi. Qual è l’idea di poesia che tiene insieme le due parti?

«È l’idea che i versi dovrebbero potere esprimere un lirismo oggettivo. Non nel senso di qualcosa valido oggettivamente per tutti, ma proprio letteralmente: il lirismo degli oggetti, delle cose. Non è per niente crepuscolarismo. L’attenzione ai luoghi, fatti di cose, è volta a esprimere l’illusione della permanenza nel tutto che invece diviene. “Divenire” è un termine metafisico, da buona educazione filosofica per non pronunciare quella parolaccia che è la morte. Il poemetto racconta un vecchio amore nell’arco temporale di un’estate; un amore fiorito e appassito sulla costa ionica, tra Savoca e Santa Teresa di Riva. Un sentimento che nella trasfigurazione poetica è saldamento ancorato ai vicoli, alle case, alle piazze. I versi della prima sezione sono – mi verrebbe da dire – più violenti a riguardo: dicono a chiare lettere di volere penetrare, probabilmente anche in senso sessuale, il cuore segreto delle cose, per esprimerne l’insensato lirismo».

Come indicato dall’epigrafe che lo introduce, tratta dalla Signorina Felicita, il pometto ha un chiaro andamento gozzaniano: ti ispiri ad altri modelli poetici?

«Permettimi di citare dalle belle pagine di Enzo Cannizzo che accompagnano i miei versi: «Ne facciamo canzone al modo di Buscaglione, di Majakovskij, di Ripellino». È sempre un po’ complesso e per certi versi compromettente citare fonti e modelli della propria scrittura. Si corre il rischio di dimenticare, volutamente o meno, i riferimenti più o meno diretti; insomma si corre il rischio di imbrogliare. A essere onesti fino in fondo si dovrebbe ammettere che come non c’è niente di nuovo sotto il sole, così non c’è niente di nuovo sulla pagina scritta. Ma così, giusto per cercare di non imbrogliare e imbrogliarmi troppo, ai già citati aggiungerei certo Pascoli (il più dai Poemi conviviali), il Dante specialmente del Paradiso, ovviamente Montale (e come si potrebbe altrimenti), il vecchio e imperituro amore per Carmelo Bene, Bufalino, l’adolescenziale passione per Petrarca che produce ancora qualche effetto, tanti francesi, Rimbaud e Corbière su tutti, parecchi cantautori italiani, anche recenti… Mi fermo, altrimenti dovrei dire: “D’accordo, ogni cosa che ho letto e che mi sia piaciuta”. Se posso però aggiungere qualcosa è un riferimento filosofico importante stilisticamente e di conseguenza concettualmente: Søren Kierkegaard».

Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la tua è una formazione filosofica. Come ti poni nei confronti dell’annosa questione del rapporto tra filosofia e poesia? Quanto e cosa c’è di filosofico nei tuoi versi?

«La scrittura o è poesia, in senso lato, o non è scrittura. O quantomeno, deve aspirare a esserlo, come aspira a esserlo la mia, rimandando il giudizio ai lettori. È lo stile l’impronta specifica di una scrittura, che sia in prosa o in versi. Alla stregua di Kierkegaard, immagino ogni singola parola che scrivo come se fosse detta, pronunciata. Aveva ragione Carmelo Bene a dire che lo scritto è il morto orale. Come dei morti non ci rimangono che immagini, così la scrittura è l’immagine di una parola non detta. C’è solo la scrittura, c’è solo lo stile. Il resto è suddivisione accademica, il resto – si dice banalmente – è noia».

 

 

 

 

 

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