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Paesi Etnei Oggi n. 279 Febbraio 2020. SMF intervista Leonardo Lodato e recensisce “Il segreto di don Ciccio” di Angela Sorace

1 Febbraio 2020 - Articoli di S.M. Fazio, DIGRESSIONI, ESCLUSIVA!, Interviste, Recensioni
Paesi Etnei Oggi n. 279 Febbraio 2020. SMF intervista Leonardo Lodato e recensisce “Il segreto di don Ciccio” di Angela Sorace

Da Paesi Etnei Oggi n. 279 Febbraio 2020

L’intervista a Leonardo Lodato autore di “Cielo, la mia musica” Fondazione Domenico Sanfilippo Editore

«Come dico nel libro, citando i Nuovi Briganti, “sono un fottuto terrone”», è così che Leonardo Lodato, nato a  Palermo ma che ha vissuto gran parte della propria vita a Catania, con una piccola pausa a Ragusa, tanto bastatogli per sposarsi e lavorare per La Sicilia, replica alla mia domanda su “Cielo, la mia musica!” da qualche giorno in distribuzione per i tipi di Domenico Sanfilippo Editore, dove invita 12 musicisti isolani a rispondere ai suoi interrogativi. Perché, non risponde il medesimo? «Li avrei potuti raccontare io – mi dice – ma mi sembrava un’idea eccessivamente autocelebrativa. La cosa bella, invece, mi è sembrata proprio quella di dare spazio al linguaggio di ognuno degli intervistati».

Ho sentito forte la necessità di porgli un’altra domanda tra il serio e faceto, e la brillantezza del giornalista e dell’uomo, conosciuto per la sua non indifferenze cultura lettero-musicale, alla domanda sull’accademia della crusca nella diatriba arancino/arancina, non si è fatta attendere. Gioioso e preparatissimo, che già un paio d’anni antecedenti la maturità classica scriveva su L’Ora, risponde: «Mi definisco un apolide con le radici ben piantate in Sicilia, non sono uno di quelli che disprezza la propria terra per poi fregiarsi del titolo di siciliano doc quando si trova fuori. Comunque si parla di arancina vero?».

Leonardo Lodato

Leonardo Lodato

Scopriamo anche un lato ultra rock, per dirla alla Celentano, la passione forse smisurata – ma cosa ne posso capire io? – per i Motörhead, band della colonna sonora della sua vita: «Li ascolto da quando avevo 12 anni. Un mio compagno di scuola, Ugo, portò a casa un LP di questa band. Fu un colpo di fulmine. Da quel momento i Motörhead hanno accompagnato la mia vita passo dopo passo, ogni loro canzone è legata a un episodio più o meno importante della mia vita, matrimonio compreso, dove chi ha officiato le mie nozze, nella sua prolusione ha parlato più di Lemmy Kilmister, il leader della band, che non di me». Ma di Leonardo Lodato c’è altro: la realizzazione di alcuni documentari e un libro a quattro mani con il suo istruttore di immersioni Guido Capraro, dedicato alla storia drammatica del Regio Sommergibile Sebastiano Veniero. In quel paradisiaco giardino della provincia etnea dove risiede, mi racconta di sfide: «Una scommessa con me stesso. Il piacere di scoprire un mondo totalmente nuovo. Mi sono immerso la prima volta spinto da alcuni colleghi. Non sono più uscito dall’acqua. Ho conseguito tutti i brevetti fino a “laurearmi” toccando i – 100 metri di profondità».

E ancora a chiedergli, come è diventato giornalista?
«Lo sono sempre stato, risponde. I primi regali di mio padre sono stati “La piccola tipografia”, una collezione di dischi dei Beatles, qualche numero di Topolino, penne, pennarelli e rulli di carta da telescrivente a volontà. Shakera il tutto ed ecco come sono diventato giornalista…»

Cielo, la mia musica!, il primo libro pubblicato per Domenico Sanfilippo Editore. Incroci lavorativi: emozione?

«Sì, è il primo, e sono felice di averlo realizzato per questa collana che raccoglie le testimonianze di giornalisti illustri che hanno avuto o hanno ancora a che fare con la redazione de La Sicilia. Il mio è, tra l’altro, il primo volume che esce in occasione delle celebrazioni dei 75 anni del giornale, la cui data cade il prossimo 15 marzo».

Oltre la magia della musica, quale argomento chiave nasconde “Cielo, la mia musica!”?

Cielo, la mia musica

Cielo, la mia musica

«Argomento chiave è la vita. Leggendo alcuni passaggi ci si accorge di come, in fin dei conti, anche episodi negativi possano dare l’input necessario per costruire qualcosa di buono. Come diceva l’analfabeta Chance il Giardiniere, nel film “Oltre il giardino”, “ci sono le stagioni. C’è l’inverno, dove tutto è morto, ma poi arriva la primavera, e tutto nasce a nuova vita” e, se la vogliamo buttare in musica, non posso fare a meno di citarti il grande Fabrizio De Andrè: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. Ecco, la scommessa della nostra vita è quella di far nascere un fiore non di nascere tra i diamanti. Altrimenti sarebbe tutto troppo facile».

Encomi, premi, concorsi: come vivi queste realtà? E cosa ne pensi del caso della collega Giangravè, vincitrice del premio “Augusta”, mai assegnatole?

«Non voglio entrare nel merito di un episodio davvero fastidioso. Se proprio vuoi un giudizio su quel che è accaduto alla collega che, peraltro, conosco, credo che sia l’ennesima dimostrazione di come questo nostro mestiere venga considerato da molti, e purtroppo anche dall’interno, in maniera distorta. Siamo dei privilegiati, facciamo un lavoro che ci piace ma è pur sempre un lavoro…»

Nella tua carriera quali personaggi tra quelli incontrati ti hanno più stupito?

«Così, a caldo, ricordo un fantastico Severino Gazzelloni dalla cortesia insuperabile. Il suo sorriso, il modo di raccontarsi, una persona d’altri tempi. I complimenti di Fiorella Mannoia, di Lucio Dalla e di Antonella Ruggiero. Diciamo che l’educazione e la cortesia degli artisti sono inversamente proporzionali al loro status di “grandi”. Meno contano più si danno arie».

Mi racconti un aneddoto piccante?

«Quella volta che una cantante italiana, tra le più importanti, mi fece telefonare dal suo impresario perché voleva assolutamente che andassi a cena con lei… No, non ti dirò mai com’è andata a finire e soprattutto non ti dirò mai chi è…».

Famiglia, lavoro, rete amicale, quale l’importanza di questi tre “diagonali”?

«La famiglia è tutto. Nel mio caso, per il lavoro che faccio, credo che la mia famiglia, strettamente intesa come mio padre, mia madre e mio fratello, sia stata decisiva nelle scelte che ho fatto. Oggi c’è anche mia moglie che mi ha sempre assecondato in tutte le mie esigenze di un mestiere che non conosce orari, feste. Una santa? Beh, ha già una beata in famiglia, quindi la strada è spianata. Sul lavoro ricordo Carmelo Bene quando asserì che non capiva i disoccupati. “Non fanno una cazzo tutto il giorno e per giunta si lamentano!”. Scherzi a parte, il lavoro è una sorta di training motivazionale. Non è importante quale sia il lavoro ma svolgerlo nel migliore dei modi. Puoi essere un intellettuale, un accademico, un manager o uno spazzacamino, se ami il tuo lavoro e lo fai con dignità, torni a casa comunque soddisfatto. Per me, dal presidente della Repubblica all’ultimo chiodo della carrozza, hanno tutti pari dignità. Gli amici, quelli veri, non li vedo o non li sento spesso. Ma so che ci sono».

Che consiglio si può dare a chi vuole fare il passo definitivo per abilitarsi alla professione di giornalista?

«Il passo definitivo? Cioè buttarsi dalla finestra? Scherzo. Se parliamo di carta stampata, questo, ormai, è un mestiere con la data di scadenza ben impressa sul fondo. Hai 18 anni, o nei hai 46, devi cercare altre strade, le vie del web sono infinite ma devi essere bravo a capire prima degli altri come utilizzarlo, conservando, comunque, lo spirito deontologico di questo mestiere».

La serietà nell’impegno su qualcosa: sino a che punto tutto è necessario per vivere bene?

«Tutto o niente. Possibile che non riusciamo ad accontentarci? A volte bisognerebbe imparare a spogliarci del superfluo. No, io non ci riesco, vorrei ma è una prova troppo difficile da superare. Filosoficamente parlando, partiamo dall’essere tabula rasa e procediamo lungo la strada della vita riempiendo le caselle. Ma di cosa? Di conoscenza? Di beni materiali? Chi pratica Yoga sa che la conoscenza deve servirci a prendere coscienza di quel che realmente ci serve e, ti assicuro, che basta davvero poco per vivere un’esistenza serena. Ecco, noi spesso sbagliamo strada perché cerchiamo la felicità e non la serenità».

 

La recensione a “Il segreto di Don Ciccio” di Angela Sorace, Bonfirraro Editore

Il segreto di don Ciccio

Il segreto di don Ciccio

Angelica rovistando nel soffitto della casa di famiglia, fra le tante cose, un che l’attrae è un diario di una sua lontana parente che la coinvolge a tal punto da farle rivivere tutto il passato dei suoi antenati. Dopo aver letto il contenuto, la protagonista subisce un forte turbamento tanto da decidere di affrontare un viaggio di pellegrinaggio a Santiago De Compostela. Giunta in loco, di imbatterà in una bella ragazza che si è materializzata da una tormenta di vento. Quest’ultima, farà notare alla nostra, che aveva perso il diario portato con se. Nemmeno il tempo di poterla ringraziare che così come le apparve, sparisce nella medesima tormenta.

Rientrata dal viaggio, nella sua adorata Catania, Angelica si mette alla ricerca delle sue radici, spinta da quel diario che la catapulta indietro nel tempo fino a farle vivere in prima persona il periodo del primo novecento dove i membri della famiglia Marchese, suoi antenati, vivevano la loro vita tra gioie e dolori quotidiani, oppressi da un capo famiglia detto Don Ciccio, che impersonava il classico Padre Padrone. La suddetta famiglia era composta da Don Ciccio, dalla moglie succube delle cattiverie del marito e dai loro 13 figli.

L’autrice, frattanto che scorre la lettura, porta il lettore per mano attraverso una Catania bellissima esteticamente, si ricordano le descrizioni di Via dei Crociferi e Via Alessi, dove si svolge buona parte della vicenda della famiglia Marchese; P.zza Cardinale Dusmet e altre meraviglie.

La famiglia Marchese, della quale Angelica è discendente vive in un appartamento di un palazzo nobiliare di proprietà di una famiglia di alto rango sociale. La vita scorre lenta nelle gioie e lentissima nei dolori e anche molto malinconica per i tredici figli e la povera moglie costretti a lavorare nel negozio di oggetti religiosi dal burbero Don Ciccio. Se qualcheduno dei figli cercava di realizzarsi in altri lavori, in famiglia si scatenava una autentica guerra, dove il solito Don Ciccio si scagliava contro i componenti più fragili della famiglia, a decorrere dalla moglie, vittima designata del despota.

Angela Sorace

Angela Sorace

Molte sono le interazioni in questa storia, e tra queste quella che narra la vicenda di una delle figlie più ribelli della famiglia di Don Ciccio: Agata, che intrattiene una relazione con un nobile già sposato. Al contempo si vive anche lo scoppio della I guerra mondiale, dove l’Italia viene coinvolta e manda al fronte diversi giovani, che non faranno ritorno. Il conflitto finirà e nella città etnea, si propagherà una malattia chiamata “spagnola”, che causerà molte vittime.

L’autrice nel raccontare la storia, forse autobiografica, della famiglia Marchese, ci delizia con attenzioni descrivendo le bellezze della nostra città, parlando della porta UZEDA ad es., o dell’”Acqua o linzolu”, gli archi dela marina, il porto, i venditori di “mauru” o di telline e ricci e del pesce fresco appena pescato. Ma ancora, Piazza Duomo e relative vie incorocianti.

Ritornando alla realtà del suo tempo, la protagonista, ripercorre passo passo tutto l’itinerario raccontando nel diario della zia, fino ad arrivar nel palazzo dei nobili che avevano affittato l’appartamento ai suoi antenati.

Qui altri colpi di scena. La accoglierà con affetto e calore un nobile ancora in vita dove accadrà qualcosa di commoventissimo, no non crediate che sia Don Ciccio, perché non riuscirebbe ad essere lui cosi longevo.

Angela Sorace è una bravissima scrittrice. Mi ha affascinato col suo meraviglioso romanzo, coinvolgendomi in una lettura senza sosta. Del libro ho accennato una piccola parte, ma garantisco un racconto dettagliato della storia di ogni personaggio e l’amore per la sua meravigliosa Catania. Libro da leggere che potendolo valutare gli assegno un 10. Senza se e senza ma.

 

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