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SMF per L’Urlo – Il Crocevia d’Europa di Luca Bistolfi – L’intervista

17 Luglio 2019 - Articoli di S.M. Fazio, ESCLUSIVA!, Interviste
SMF per L’Urlo – Il Crocevia d’Europa di Luca Bistolfi – L’intervista

Da L’Urlo del 17 luglio 2019

Il Crocevia d’Europa di Luca Bistolfi – L’intervista

La filosofia di Bistolfi come manuale culturale. Compreso un viaggio in Romania

Crocevia d’Europa (Alpine studio edizioni), racconto di viaggi soggiorni e incontri nonché riflessione storico-culturale, è una delle diramazioni intellettuali pubblicate da Luca Bistolfi. L’autore, torinese classe ’78, vanta altri importanti lavori. “La morte di Wagner” (effeppi, 2011), prima indagine della bibliografia del musicista di Lipsia a mettere in dubbio e in luce le singolari circostanze dell’ultimo tratto suo di vita.

Da traduttore pubblica “La fine dei Ceausescu” (2012) di Grigore Cartianu, che è la prima inchiesta mondiale sul crollo del regime nazionalcomunista romeno, dove ha aggiunto un saggio con informazioni inedite.

Ma non solo, c’è il “maC.B.eth, ovvero L’ultimo melodramma in vita. Un saggio su Carmelo Bene e la musica” (irfan edizioni), omaggio a Carmelo Bene.

E ancora, al filosofo piemontese, che ha collaborato con testate nazionali quali il nostro tempo, Studi Cattolici, EaST Journal, Eurasia, il Touring Club Italiano, ha demandato una guida sulla Romania di prossima pubblicazione.

«Come gran parte delle vicende umane, le cose iniziano o con un libro o con una donna. Nel mio caso hanno preso avvio dall’uno e dell’altra. Questa tizia romena con la quale avevo una relazione, un giorno se ne viene a casa mia con un libro sul suo Paese, la Romania, che conoscevo quasi per nulla. Lo apro e mi ritrovo immediatamente a casa, in quella patria “che a tutti brilla nell’infanzia, ma in cui nessuno è ancora stato”, per dirla con Ernst Bloch. Da allora, tra gioie, disgusti, amarezze e amore, non l’ho più mollata. In precedenza c’erano state delle avvisaglie, che racconto in “Crocevia d’Europa“. Ma alla base di tutto c’è un’attrazione primigenia». È questo l’esordio di Luca Bistolfi, all’incontro avuto il mese scorso, grazie alla mediazione di un amico comune, Marco Iacona.

L’Est e i suoi Paesi, quale l’imprinting che ti lega a questo Crocevia europeo?

«Una sorta di attrazione primigenia. A dispetto della globalizzazione, che pur sta appiattendo il mondo, le differenze tra ovest ed est quali categorie generiche, per così dire “dello spirito” ma ovviamente anche materiali, esistono, eccome. E nell’Est – che per me va da Trieste fino al Kazakistan – esistono ancora modi di vita e forme di pensiero che mi rimandano a una realtà primordiale, in cui l’uomo è davvero istmo tra cielo e terra. Là c’è un profondo contatto con la natura ma al contempo la consapevolezza – o per lo meno – di una sorta di immortalità panica. Tutto ciò si riflette poi pressoché in ogni aspetto della vita quotidiana, e poi nella filosofia, nella religione, nella letteratura. Ci sono molte meno sovrastrutture psichiche e culturali, che ti consentono di andare alla radice dell’essere umano e della vita. Ma nonostante quest’attrazione ctonia e superna, bisogna avere a che fare con gli esseri umani, che sono miserabili sotto qualsiasi cielo e in qualsiasi epoca (conosciuta). In particolare oggi che la tecnologia informatica ha ormai irradiato tutto l’orbe terraqueo e si deve fare i conti con la desolazione lo sradicamento. Non ci sono più differenze tra un newyorkese e un russo, ancorché le popolazioni del centro dell’Eurasia, marcando un ritardo di modernizzazione, conservano ancora potenti tracce dei primordi. Io rimango un occidentale, ma l’imprinting dell’Est è stato molto forte. Grazie a quelle esperienze ho potuto misurarmi coi limiti delle mie origini più recenti e recuperare anche quelle più antiche. Era tutto sepolto ne mio inconscio, poi a un tratto è esploso alla superficie».

Oltre la relazione con la donna romena, ci sono crocevia con personaggi celebri o luoghi, che hanno influenzato la tua stilistica?

«Si, ma nessuno proveniente dalle mie zone di riferimento; e men che meno la donna cui fai riferimento. La quale fu soltanto un involontario abbrivio, bensì decisivo, ma che ratificò soltanto un pre-sentimento molto antico, che risale a quand’ero piccolo. Indegnamente (e lo dico sul serio) i miei riferimento sono tutti europei e italiani. Anche perché, ci tengo a dirlo, l’influenza della scrittura può passare solo all’interno del medesimo idioma; altrimenti c’è la mediazione del traduttore. E’ banale dirlo, o forse no, però nessuno se ne ricorda mai quando dichiara il proprio amore per come scrive un autore straniero. Certo, è evidente che una penna brutta e sciocca non può essere surrogata dal traduttore, fors’anche il migliore e il più benintenzionato. Ma resta quel che ho detto. In materia di scrittura, ci si può dire figli, legittimi o meno, soltanto della propria terra. Gli altri casi sono rarissimi e da valutare singolarmente».

Dunque la passione per l’Est con ispirazione di personaggi prettamente occidentali: chi sono?

Piero Buscaroli
Piero Buscaroli

I miei punti di riferimento per la scrittura sono, credo, molto ben selezionati: Piero Buscaroli, Anacleto Verrecchia, Amadeo Bordiga. Roberto Calasso, Curzio Malaparte e Massimo Fini. Al primo in particolare debbo moltissimo, soprattuto per il metodo di ricerca storica. Si tratta di penne straordinarie, anche se Fini sta in coda al sestetto e anche con un bel po’ di distacco. Difficile nel Novecento italiano trovare pagine così alate, musicalmente fondate, originali senza essere arroganti o ermetiche, come quelle d’un Buscaroli o d’un Bordiga; accosterei loro il solo Giovanni Papini. Bordiga è scrittore eminentemente politico, il massimo marxista e vero comunista rivoluzionario che l’Italia abbia mai avuto; è il grande rimosso della storia del movimento operaio internazionale e segnatamente italiano. Al San Marco di Livorno nel ’21, fu il principale protagonista e il vero fondatore del partito comunista, che poi Togliatti e i suoi vollero obliterare già dal 1930. Si potrebbe dissentire da ogni sua riga, ma resta un prosatore degno di accedere al Parnaso delle lettere italiche. Detto tutto ciò, però, non mi piace fare l’emulo o il manierista, soprattutto alla mia età, mi fa schifo la sola idea; e quindi mi son forgiato uno stile mio; che, tengo a precisare, non è nemmeno lontanamente all’altezza dei citati. Anche se oggi scrivere in una certa maniera è impossibile».

Cioè?

«Oggi giornali, cartacei e virtuali, e case editrici sono refrattarie alla bella scrittura, alla scrittura anche complessa; i rari casi, sono appunto casi nel senso etimologico del termine. Non sto tessendo l’elogio della scrittura complicata e illeggibile, che detesto e mi fa schifo, quella in cui l’autore deve dimostrare di essere intelligentissimo e coltissimo e tu, povero lettore, un minus habens. Però non accetto che se scrivo “scarsella” o adopero un avverbio desueto o infilo due subordinate una dietro l’altra, mi si rifiuti il testo perché la gente non capisce. Quale gente, poi, di grazia? Quando gli feci educatamente presente che molti si erano lagnati per la difficoltà del suo “Beethoven”, Buscaroli mi rispose: “Ho deciso di non scrivere più per gli ignoranti”. In realtà egli si riferiva, non che alla prosa, soprattutto ai contenuti e ai continui rimandi alla storia generale; ma la sostanza non muta. L’abbassamento del livello culturale e, sottolineo, cognitivo è una piaga universale, scandalosissima poi in un Paese che nella bellezza e nell’eleganza ha una delle sue cifre storiche. Ma è soltanto una finzione, un modo per non sentirsi ciò che si è: ossia inferiori.
Se ami la bellezza, la profondità e l’eleganza, se ami insomma tutto ciò che ti fa distaccare, foss’anche soltanto per il breve momento della pagina scritta, dalle brutture morali ed estetiche (è poi una sol cosa) del mondo, cerchi di tradurle anche nella tua personale attività. Si può credere che certi scrittori oggi che si riempiono la bocca di nomoni e li proununziano a nari dilatate amino davvero Manzoni, Leopardi, Shakespeare? Da come scrivono, mi pare invero che piuttosto li odino».

Oltre lo stile

«Ma andiamo oltre allo stile: bisogna scrivere (o tradurre) ciò che ancora non c’è. Questo è sempre stato il mio cruccio. Mi sono imbattuto in troppi pappagalli per cadere nella sirena della scrittura fine a se stessa; non sono mica D’Annunzio, che ce n’è stato solo uno poi. Aveva ragione Lichtenberg: risono i cavalieri, che ne cuciono insieme due, tre cinque, dieci e sfornano il loro Frankestein. Io scrivo solo quando ho l’impellenza di farlo perché ho scovato qualcosa di nuovo, o al massimo per tenermi in esercizio. Scrivere è come qualsiasi altra attività umana: va fatta quando è necessario, non perché si deve o ci si vuole pavoneggiare».

Un trionfo del nulla?

Giorgio_Gaber
Giorgio_Gaber

«Magari! Il nulla sarebbe già qualcosa, anche se io con questo concetto ho qualche problema. la verità è che siamo davanti a qualcosa di peggio: alla banalità e al brutto. Con questi criteri cosiddetta semplificazione, che poi è sempre banalizzazione, si arriverà un giorno a velare le cattedrali gotiche e gli edifici barocchi perché troppo articolati rispetto alla squallida e depotenziante edilizia moderna. Il fatto è che queste direttive di scrittura non vigono soltanto nei giornali di cronaca, ma anche venne riviste culturali. Anni fa un foglio peraltro in distribuzione gratuita quindi senza la necessità di essere venduto, mi cassò un articolo sul sommo direttore d’orchestra Sergiu Celibidache perché, riferisco testualmente, “troppo difficile per i nostri lettori”. In realtà era difficile per quel somaro con tre cappelli da direttore, che pure mi aveva egli stesso convocato e chiesto un pezzo romeno. Voglio ancora dire questo: se date una scorsa ai giornali di trenta o quarant’anni fa e li paragonate con quelli di oggi, balzerà subito agli occhi la differenza: anche se si trattava di quotidiano, la lingua non era coì vulgaris come oggi, non si aveva paura di adoperare parole “difficili” o di comporre titoli lunghi. Come diceva Giorgio Gaber, “un’abbassatine di qua e un’abbassatina di là, ecco a voi la democrazia”».

Citi Gaber per arrivare alla democrazia eppure appari vicino a crocevia nichilisti…

Emil Cioran
Emil Cioran

«Cito Gaber, tengo a precisare, ma non lo amo affatto; anzi: lo cito proprio perché non lo amo e perché è così idolatrato, e non solo dalla sinistra. Mi piacque scoprire che anche lui, a differenza dei suoi sodali e ammiratori coevi e postumi, diceva della democrazia quel che essa era ed è. E senza che nessuno, forse perché era Gaber, lo censurasse. Ma temo che oggi anche l’intellettuale più popolare, se dicesse che la democrazia è un livellamento verso il basso, verrebbe subissato di improperi: anzi, censurato, in pieno stile democratico.

Sì, certo, lo dice fuggevolmente Fini, ma nessuno se lo fila, sta in un ghetto, che per quanto ampio, ghetto resta. Se le stesse parole di Gaber le dicesse, che so?, Saviano da Fazio, la faccenda andrebbe diversamente. Erano, quelli, altri anni, in cui nonostante tutto, certe parole, certe idee potevano esser dette. La democratizzazione è arrivata a livelli così miserabili che c’è più controllo nel sempiternamente esaltato “oggi”, che non nell’invariabilmente esecrato ieri. Quanto al nichilismo, non lo sono, affatto. Uno delle mie bestie nere, a proposito di nichilismo e di Romania, è Cioran, al quale anni fa dedicai un lungo articolo che lo fa in pezzi. Vorrei tanto essere nichilista, perché mi pare una scorciatoia, una bella vacanza mentale; ma ho praticato a lungo la montagna, e so che prenderla per le corte non porta in alcun dove».

Hai un bel dire e raccontare. Scambi, confronti, opinioni et alii con persone non necessariamente di questi Paesi dei quali ne sei attento studioso?

«Pochi, pochissimi, se non per vie private. In Romania c’è poca riconoscenza per chi la ama; a volte anzi c’è perplessità, diffidenza, irrisione. Poi ci sono eccezioni a questa avvilente regola. Per quanto riguarda invece l’accoglienza italiana, siamo al deserto o quasi. Traduco dal romeno da dieci anni e da altrettanti scrivo su quella terra, ma ho avuto poche soddisfazioni: un libro tradotto e curato e non pagato (La fine dei Ceausescu, Aliberti, 2012), che è la prima e più completa inchiesta sul crollo del regime nazionalcomunista romeno; il saggio-diario “Crocevia d’Europa” (Alpine, 2018) che stai leggendo, sennò non mi faresti alcune domande così mirate: un buon risultato e qualche articolo sulla stampa nazionale d’élite (“il nostro tempo”, “EaST Journal” ed “Eurasia”).

Tributo a Domenico Ferla

Domenico Ferla
Domenico Ferla

Se dovessi avere cinque euro per ogni editore che ha rifiutato mie proposte traduttive di saggi e romanzi, potrei pagarmi un lungo viaggio in Romania. I miei confronti personali, oltre a quelli sulla pagina scritta, sono stati con pochissimi soggetti. Buscaroli e Verrecchia, dei quali ho già detto e che ebbi l’onore di conoscere e frequentare; e poi Domenico Ferla. Un sommo, un gigante della letteratura, il massimo suo conoscitore, alla sua volta sconosciutissimo. In ottant’anni di vita ha pubblicato soltanto due libri, sottili, struggenti, feroci, due raccolte di poesia (La casa di Arimane stampa nel ’79 da L’Erba voglio, e Una suprema nostalgia, edito nel 2017 da Colibrì), ma è la persona a cui, insieme a Buscaroli Verrecchia e Francesco Coppellotti, mio docente di filosofia al liceo, debbo di più.

E’ colui che mi ha insegnato un gusto, mi ha insegnato a leggere davvero; ed è, per inciso, colui il quale mi scoperchiò lo scrigno Bordiga, figura della quale Ferla fu amico e discepolo negli Sessanta. A Domenico ho anche dedicato un libro, che dovrebbe uscire quest’anno per Colibrì, in cui raccolgo la sua eredità, tutta orale, per salvare la quantità e la qualità sterminata del suo pensiero. È una delle pochissime figure a cui debbo di più. Le altre sono Buscaroli, in misura minore Verrecchia e Francesco Coppellotti, mio docente di filosofia al liceo. Mi arrivarono quando ero giovanissimo o almeno giovane e cercavo maestri. Fui fortunatissimo».

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