Menu

SMF per VIVERE inserto del giovedì de La Sicilia – Intervista a Viola Di Grado per il suo “Fuoco al cielo” – La nave di Teseo

21 Marzo 2019 - Articoli di S.M. Fazio, DIGRESSIONI, Interviste
SMF per VIVERE inserto del giovedì de La Sicilia – Intervista a Viola Di Grado per il suo “Fuoco al cielo” – La nave di Teseo

DaVivere del 21 marzo 2019

 

Viola Di Grado: «Alëšen’ka è dentro di me»

22/03/2019 – 12:13

di Salvatore Massimo Fazio

Edito da La Nave di Teseo, è uscito il 21 marzo “Fuoco al cielo” il nuovo romanzo della scrittrice catanese che racconta di un amore contaminato, non solo dalle radiazioni atomiche di un territorio devastato. Venerdì 22 marzo la presentazione alla Prampolini di Catania

Protagonista della storia è un essere né umano né alieno: «Non mi interessa stabilire se Alëšen’ka fosse umana o no. Mi interessa il fatto che sia incatalogabile»

Un fatto di cronaca risalente al 1996, nella vecchia Comunità degli Stati Indipendenti nata dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, a ridosso del Kazakistan, nella città segreta dove le radiazioni generate dalle sperimentazione dei sovietici, hanno cambiato la vita di chi vi vive. I danni della più nota Chernobyl sono stati inferiori. Ancora oggi, un arcano rimane l’identità di Alëšen’ka, protagonista trasversale del fatto di cronaca – nel 1996 fu ritrovato nella regione di Chelyabinsk un essere che non si capì mai se un bambino nato deforme per l’alto tasso radioattivo della zona o un alieno -, nonché del nuovo romanzo della 31enne scrittrice catanese Viola Di Grado dal titolo Fuoco al cielo, pubblicato da La Nave di Teseo. Venerdì 22 marzo, alle 19.30, alla Libreria Prampolini di Catania, Viola Di Grado, accompagnata da Giuseppe Raniolo, incontrerà il pubblico per la presentazione del romanzo.

Viola Di Grado Fuoco al cielo

Alla domanda come, dove e perché l’abbia scritto, ci ha sorpreso ancora una volta lo sfiorare del suo coup de génie: «Ho scritto come in preda a una possessione, nel corso di mesi molto intensi e solitari». Ipotizzatrice di un amore avvelenato come l’ambiente in cui si è verificato il fatto, della Di Grado abbiamo colto quel panismo dannunziano de La pioggia nel pineto, quando uniforma la natura, distorta dall’uomo, col vissuto di Tamara e Vladimir, coloro che si curarono di Alëšen’ka. Di quest’ultima le abbiamo chiesto se crede fermamente che sia ciò che hanno dichiarato gli studiosi: un’esserina dove erano presenti due tipi di Dna, uno umano, l’altro a tutt’oggi sconosciuto.
«Alëšen’ka – incalza la Di Grado – è molte cose. E’ una creatura trovata in un bosco, salvata da una donna piena di amore che non sapeva dove riporre quell’amore. E’ il prodotto di un’ingiustizia senza precedenti, di un danno ambientale e umano incalcolabile. Di tonnellate di scorie nucleari scaricate in un fiume. Alëšen’ka è anche, metaforicamente, il prodotto splendido e terribile di un amore tossico. Non mi interessa stabilire se Alëšen’ka fosse umana oppure no. Al contrario, mi interessa proprio il fatto che sia incatalogabile. Viviamo in un’epoca ottusa che per comprendere ha bisogno di incasellare. Mettere il mondo all’interno di categorie, scatole, cassetti. Certo il cervello umano ha bisogno di schemi per avvicinarsi alla realtà, ma siamo esseri creativi e adattabili, dunque è nostro dovere morale creare schemi nuovi: dovrebbe essere uno degli scopi principali della nostra cultura umana».

Tamara e Vladimir i protagonisti del tuo romanzo, sono innamorati, un amore manicheo il loro. Nel reale non si sa molto se non che fossero vicini di casa. Hai scoperto novità o hai volutamente creare un pre-vissuto alla nascita di Alëšen’ka?
«Secondo il fatto di cronaca, Vladimir è semplicemente l’uomo che ha trovato, all’interno della casa di Tamara, quello strano essere che è Alëšen’ka. Perché si trovava dentro quella casa? Ho ipotizzato che Tamara e Vladimir avessero una relazione. Una relazione velenosa e pericolosa come il luogo in cui vivono, il luogo più radioattivo del pianeta».

Aleshenka

Alëšen’ka, l’essere mummificato trovato nel 1996 nella regione di Chelyabinsk

Cosa ti hai ispirato a far conoscere ad un pubblico più ampio questa storia?
«Lo scrittore deve essere un veicolo delle emergenze culturali della sua epoca. Io mi sento una serva della mia scrittura e sento il dovere di farmi strumento delle storie dimenticate o poco conosciute, di denunciare le ingiustizie che sono state silenziate. Fortunatamente in questi giorni, grazie a Greta Thunberg, si parla intensamente dell’emergenza ambientale. E allora parliamo anche di questo: delle scorie radioattive. Secondo i dati ufficiali, solo dal 1949 al 1956 furono scaricati nel fiume Teca settantasei milioni di metri cubici di scorie nucleari. I dati non si fanno più rincuoranti se esaminiamo gli anni ’90, anni in cui si svolge la storia che racconto: ogni anno venivano scaricati nel fiume circa duecentocinquanta milioni di metri cubici di stronzio e cesio, tritio e cesio-137. E non parliamo solo di danni all’ambiente, ovviamente, ma dello sviluppo di patologie negli esseri umani, e tutto questo veniva accuratamente insabbiato dal governo».

Le intersecazioni a sfondo psicologico ad un certo punto (siamo a tre quarti del romanzo), potrebbero sembrare elementi di un thriller. E’ voluta la suspance creata negli ultimi 4 capitoli?
«Non c’è niente che crea più suspense nella mente umana delle complicazioni di una relazione sentimentale. Siamo esseri affettivi: temiamo la perdita dell’amante più di quanto temiamo la morte, perché il lutto amoroso sembra uccidere momentaneamente zone vitali della psiche, pur lasciandoci incredibilmente vivi, almeno in senso letterale e biologico, e questa ambiguità crea una grande e deprimente confusione. Solo quando si accetta la morte dell’immaginario amoroso (è quello, che muore, non qualcosa che appartiene realmente alla nostra identità) si può trovare di nuovo la pace. Così i ti amo, e tutto il resto del pacchetto sentimentale, si può di nuovo azzerare».

Cosa è quel liquido che espelle Alëšen’ka, e quale l’illuminazione che te lo ha fatto creare così?
«Non l’ho inventato io. Emetteva davvero quel liquido. Cosa fosse non è stato mai scoperto. A un certo punto del romanzo dico che Tamara odiava i cani per “tutto quell’amore allo scoperto”. Chissà, forse è una cosa del gener il liquido di Alëšen’ka: amore allo scoperto, la necessità terribilmente umana di essere oggetto di cure».


Viola Di Grado nella foto di Nerina Toci

Il dna di un essere umano di genere femminile trovato in quello dell’“esserino”, può essere un inganno dell’Intelligence a tuo parere?
«Tutto può essere. Spetta al lettore farsi una sua idea su cosa sia davvero successo. Molte persone stanno rileggendo il libro più volte valutando le varie opzioni. Ci sono vari livelli di lettura».

Può aver influito la stesura di “Fuoco al cielo” i tuoi corsi di scrittura zen?
«Lo studio del buddhismo e delle filosofie dell’Asia orientale in genere ha sicuramente una grande influenza sulla mia idea di scrittura e sul mio approccio al linguaggio. Da sempre dico che il mio motto è “dimenticare il linguaggio”, come diceva Zhuangzi, filosofo taoista del quarto secolo avanti Cristo. Dimentico nel senso che azzero le parole, le riporto a un livello più antico, più malleabile, dove è possibile innestare altri significati».

Scegliere un fatto accaduto realmente e crearne sfumature eccessivamente disperate: perché?
«Non credo sia possibile aggiungere ulteriore disperazione a un fatto tragico come quello che racconto. O pensi che si possa essere felici nel luogo più radioattivo del pianeta? Inoltre non credo in definizioni come felicità e disperazione, penso che ogni gioia sia disperata e ogni tristezza sia piena di vita».

Viola Di Grado di Francesca marzia esposito

Viola Di Grado ritratta da Francesca Marzia Esposito

Rincaro la dose: perché quel dolore e disperazione di Tamara, quel perdersi verso la deriva, viene sovvertito verso una lettura della bellezza del supporto all’altro, anche se si sa che l’altro potrebbe non essere la tua creatura?
«Non reputo importante che Alëšen’ka non sia figlio di Tamara. Non credo che si ami più un figlio se è nato dalla tua carne. Sarebbe un modo di banalizzare e semplificare l’esperienza dell’amore. Ora più che mai, in questi tempi di sopraffazione e di rinnovato sospetto per la differenza (per lo straniero, ad esempio) è fondamentale un’educazione sentimentale basata sull’accoglienza dell’altro, non sulla ricerca della somiglianza. Il mondo dei social – dove persino gli algoritmi ti propongono solo contenuti simili a quelli con cui hai già interagito – sta diventando uno specchio di questa diffusa incapacità di lettura e desiderio del diverso».

Che idea hai tu di Alëšen’ka?
«Mi sono affezionata moltissimo. Mi sento come se lo avessi trovato e raccolto io stessa nel bosco. Alëšen’ka è dentro di me. Non mi importa se è un alieno o il feto deforme di una bambina. Non ho una particolare affezione per definizioni ed etichette. Sono un’amante del mistero. Il mio approccio alla sfera dei sentimenti è mistico, non razionalistico».

Otto anni dopo il successo di “Settanta acrilico, trenta lana”, un nuovo annunciato successo. Cosa è cambiato nella tua ideazione?
«Ho un approccio meno nevrotico alla scrittura. Forse solo perché adesso ho 31 anni, e insomma mi sono leggermente calmata. Il che nella pratica significa che riscrivo meno frequentemente, ripongo più fiducia nella prima forma che prende il mio pensiero. Ho un approccio più mistico e meno punk alla scrittura».

 

COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *